Martin Eden: un classico da leggere


Poi si assopì e cominciò a fare sogni che per follia e audacia potevano competere con quelli di un mangiatore d’oppio.

ATTENZIONE: contiene spoiler!

Il mio primo incontro con Martin Eden è avvenuto attraverso la biografia di Enzo Biagi, che ha dichiarato di essere diventato giornalista proprio dopo aver letto il romanzo di Jack London. Da allora questo titolo è entrato nella lista dei miei leggerò, di quelli più pesanti, di quelli tra cui si annoverano le più imperdonabili lacune da colmare (ho una lista simile anche in materia cinematografica, se è per questo). Ho lasciato correre del tempo, finché questo romanzo non ha esercitato su di me un richiamo irresistibile, al quale si sono unite le migliori contingenze personali che mi rendevano il più recettivo e predisposto possibile ad accogliere questa lettura. Spesso ho avuto persino il dubbio se fosse Martin Eden di Jack London oppure Jack London di Martin Eden; dubbio che ora, a lettura archiviata, posso parzialmente giustificare alla luce della scoperta componente autobiografica che effettivamente confonde per molti aspetti Eden e London.

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La copertina del libro, edizione Mondadori 2016.

Tante sono le pagine di critica letteraria scritte a riguardo. Io mi sono riservato il privilegio di leggere Martin Eden totalmente all’oscuro di tali pagine, con la mente sgombra da possibili pregiudizi e preconcetti. È questo, solitamente, l’approccio che riservo ai grandi classici della letteratura, quelli, per intenderci, a proposito dei quali non ha neppure più senso parlare di spoiler, giacché la trama è ormai risaputa, e anzi con il passare del tempo è finita in secondo piano rispetto alle interpretazioni del testo, alla biografia dell’autore, e alla fortuna di quelle e di questa. Un simile approccio mi spinge a voler sapere, prima della lettura, meno possibile della trama di un libro, e poco o nulla di quello che ne ha scritto la critica. Insomma, mi avvicino a un classico come se fosse un libro appena pubblicato, meglio ancora l’esordio di un autore promettente. E che mi senta costretto a questi autoinganni pur di leggere un libro, la dice lunga su quanto la critica abbia travolto e occupato il posto del suo principale oggetto, la letteratura, che invece dovrebbe solo corredare con umiltà di ancella.

Conoscevo già, “per colpa” dei programmi ministeriali del quinto anno di liceo, l’epilogo della Coscienza di Zeno; e quando dopo, all’università, ho letto il riconosciuto capolavoro di Italo Svevo, non ho sentito l’esigenza di arrivare alle pagine finali (no, qui non c’entra il terzo diritto del lettore secondo Daniel Pennac). Ho letto invece Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello o Lo Straniero di Albert Camus fino alla fine, nonostante la scuola e internet mi avessero ugualmente già rivelato il finale e le relative implicazioni etico-morali. E quei finali sono stati scialbi, attesi, paradossalmente rovinati dalla mia istruzione. La lista potrebbe tristemente allungarsi, soprattutto “per merito” dei corsi universitari, i cui programmi d’esame prevedevano sì la lettura di romanzi fondamentali della letteratura italiana, inglese, francese o russa, ma previa disamina critica del docente, ovviamente in ogni parte della trama. Ecco perché mi ha travolto il drammatico finale di Martin Eden: perché non lo conoscevo. Semplice, banale, eppure è così poco scontato in una letteratura travolta da orde di critici letterari, una letteratura ipercritica.

Tanto è stato scritto, e altrettanto è facilmente reperibile, che sembra quasi superfluo dire ancora della biografia di Jack London o della trama di Martin Eden. A proposito del finale, però, credo si possa dire che sia stato preparato in modo magistrale da Jack London: negli ultimi capitoli l’autore trascina chi legge nel vortice della progressiva disillusione di Martin Eden, della progressiva perdita di senso e di fiducia nella vita vista con gli occhi del protagonista, causata proprio dal successo e dall’imperscrutabile meccanismo sociale che decide chi elevare al successo e soprattutto quando. Il ragionamento di Martin è pressappoco questo: ho patito la fame quando ho deciso di fare della scrittura la mia vita e mi avete schifato, mandandomi ancora più a fondo; ora che ho successo mi acclamate e m’invitate ai vostri pranzi; ma io avevo un reale bisogno di mangiare allora, non certo ora che il mio conto in banca è ben nutrito; eppure, allora come ora, ero sempre lo stesso e scrivevo sempre le stesse cose, che allora gli editori mi rifiutavano e ora tutti mi pubblicano.

Ma nonostante, come ho detto, sia preparato, il finale è un precipitare davvero inaspettato e per niente anticipato dal testo. E per fare sadicamente torto a quanto ho appena decantato e a quanti in fondo la pensano allo stesso modo, ecco lo spoiler. Durante un viaggio in nave alla volta delle isole Marchesi, Martin decide di buttarsi dall’oblò della sua lussuosa cabina nelle acque dell’oceano, e la scena è davvero drammatica: in un primo momento non riesce neppure ad andare a fondo perché istintivamente torna in superficie dimenandosi con braccia e gambe contro la sua stessa volontà, e per mettere fine alla sua vita deve ingaggiare una titanica lotta contro se stesso. La mente che si fa assassina del corpo. Tremendo.

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Ma al di là del finale, il travagliato percorso di Martin Eden per riscattarsi socialmente e diventare uno scrittore di successo, con i suoi continui fallimenti, i primi timidi riconoscimenti e la definitiva consacrazione, è uno stimolante e motivazionale inno alla perseveranza, all’abnegazione e soprattutto alla fondamentale importanza dell’esercizio, che la scrittura, insaziabile, richiede quotidianamente. Ho letto alcune pagine di critica letteraria solo dopo aver terminato il romanzo, a partire dalla Nota alla traduzione di Stella Sacchini e dal competente saggio di Mario Maffi Leggere e rileggere Martin Eden, entrambi posti alla fine dell’edizione Mondadori 2016 in cui ho conosciuto il romanzo. Ecco: la critica dovrebbe essere sempre la postfazione delle nostre letture, e mai dovrebbe condizionarle a priori. Ad ogni modo non sapevo, e quindi non sono stato influenzato dal fatto che lo stesso London abbia dichiarato che il suo romanzo voleva essere una critica all’individualismo. E soprattutto, durante la lettura di Martin Eden, il mio approccio di cui sopra mi ha aiutato a tenere a debita distanza etichette come “romanzo di formazione”, “storia d’amore” o “denuncia sociale”. Quanta attinenza hanno queste etichette con il piacere della semplice, disinteressata lettura di un libro?

Tutto quello che mi è venuto da pensare, nel corso della lettura, è che Martin Eden è davvero un romanzo degno di essere chiamato tale, tanto da non far pesare la ridondanza e la straripante verbosità in cui spesso indulge l’autore; o meglio, per ricorrere all’aiuto di un’immagine platonica, un romanzo che bene si adatta all’idea iperuranica che negli anni mi sono fatto del romanzo, e di cui Jack London è stato il sapiente demiurgo. O ancora, per essere di gran lunga più prosaici, e volendo usare un’espressione – anche fin troppo inflazionata! – , un romanzo “cazzuto”, come sembra essere il suo autore nonché il suo nerboruto protagonista. Spero che la sintesi delle due suggestioni possa bastare a rendere il concetto, per il quale non trovo davvero altre parole. Per il resto la lettura è stata troppo travolgente e serrata da consentirmi più sofisticate considerazioni in fieri (che solitamente, invece, appunto di volta di volta sul mio taccuino, fedele compagno accanto ai miei libri sul comodino).

A margine di quest’analisi condotta a braccio, volendo indossare per un attimo il cappello del critico, dirò soltanto che mi hanno colpito alcuni elementi ciclici riscontrabili nel testo: il più banale, Martin, presentato sin dall’inizio come marinaio, decide di morire in mare, durante un viaggio in cui non è più l’ultimo membro dell’equipaggio ma l’ospite più illustre, che a tavola siede alla destra del capitano; Lizzie Connolly, la ragazza del popolo che compare quasi accidentalmente all’inizio del romanzo, un personaggio in apparenza minore se non minimo, torna prepotentemente alla fine, lasciando intendere che è rimasta per tutto il tempo non solo ad aspettare fedelmente Martin, ma soprattutto come emblema del vero amore, in opposizione a quello idealizzato per la frivola borghesuccia Ruth Morse; e infine il poeta inglese Algernon Swinburne, il primo autore citato tra le pagine del romanzo insieme ai tanti altri (su tutti, il filosofo Herbert Spencer, faro nella visione del mondo del protagonista e del suo autore), lo stesso che fatalmente induce Martin al gesto estremo proprio in chiusura del libro, attraverso la lettura di alcuni suoi versi sulla morte come unica cura efficace all’implacabile malattia della vita.

3 pensieri su “Martin Eden: un classico da leggere

  1. Lo devo ancora leggere, questo libro di Jack London, quindi salvo il tuo articolo con il proposito di leggerlo più avanti nel tempo. Per i motivi che hai ben elencato all’inizio del post… Ma il like te lo do subito sulla fiducia, conoscendo la tua competenza in fatto di analisi letterarie 🙂

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    1. Grazie mille Alessandra, gentilissima! 😊 Sai, è forse la prima volta che parlo del finale di un libro, ma questo sentivo proprio il bisogno di raccontarlo, se non altro perché ho sperato fino all’ultimo, fino all’inverosimile, che andasse diversamente… Allora, se vuoi, ne riparliamo presto, quando lo avrai letto anche tu 😉

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  2. L’ho terminato da poco e, nonostante la prolissità di alcune pagine, mi è piaciuto moltissimo, mi ha coinvolta parecchio. Per gran parte è un inno alla perseveranza, come hai ben scritto, ma poi il finale rimette tutto in discussione. Non sapevo che l’autore l’avesse intenso come una critica all’individualismo.

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