Roberto Saviano: un intellettuale in Vespa per raccontare Gomorra 3/3


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Le conseguenze, a livello soprattutto personale, di questo suo coraggioso atto di parola, di questa sua scelta di parlare, Saviano le confida in un’intervista rilasciata a Enrico Deaglio per l’uscita di ZeroZeroZero[1] (che, secondo il giornalista, sembra si possa più pacificamente definire un “romanzo”, o meglio «il primo vero romanzo di Saviano»[2]):

Come sto? Sono disperato, anche se mi vergogno a dirlo. Per come sono finito… in questa morsa strana tra una vita pubblica totale e la mia vita privata blindata. E proprio mentre esce il libro, e i lettori mi daranno energia… Eppure mi sento come uno che ha sbagliato strada; molte volte ho pensato che non rifarei nulla di quello che ho fatto, che niente vale il prezzo della libertà e della serenità. Altre invece penso che posso farcela. Che valeva la pena. Alcuni anni fa mi hanno offerto di andare in Scandinavia. C’era un Paese che mi avrebbe preso, nuova vita, un’altra identità. Avrei dovuto farlo… E invece ho pensato che avrei potuto far emergere le storie che mi ossessionavano… E così non sono partito e tutto è cambiato, per sempre.[3]

La portata nuova di questo nuovo intellettuale rappresentato da Saviano risiede nel fatto che mentre dimostra con prepotenza, attraverso la sua scrittura, che la figura dell’intellettuale non è mai scomparsa dalla scena italiana, ma che aveva solo bisogno di ridimensionarsi, ricollocarsi, riadattarsi all’interno di una società ormai profondamente cambiata, dall’altro investe la letteratura, ormai bistrattata e svilita anche da fredde esigenze di mercato, di un significato nuovo, di una nuova funzione sociale. Scrive a tal proposito Antonio Tricomi:

Saviano sembra ribadire che non c’è per la letteratura nessun privilegio da provare a riconquistare, la marginalità culturale di cui essa soffre rivelandosi un dato forse definitivamente acquisito, e che per ogni autore si tratta invece di accettare questa verità non per difendere la scelta di prodursi in più o meno raffinati esercizi di stile, ma per dimostrarsi intransigente nell’orientare il proprio lavoro a una scommessa civile spesso persa in partenza, eppure degna di essere rischiata con grande tenacia e pari umiltà.[4]

Don Peppino Diana
Don Peppino Diana

Se raccoglie in una certa misura l’esempio di Pasolini, che è stato ovviamente anche un letterato oltre che un intellettuale, Saviano guarda però anche al messaggio di don Peppino Diana, che certo non era né un letterato né un intellettuale nel senso proprio del termine. E «se Pasolini aspirava ancora al ruolo del grande protagonista, don Peppino, come Saviano, ha accettato da sempre la propria condizione di intellettuale delle periferie»[5].

Il capitolo intitolato Don Peppino Diana è posto subito dopo Cemento armato, e insieme potremmo quasi vederli come una duologia che cerca di sintetizzare il modo di Saviano di concepire l’intellettuale, quello che deve essere il suo impegno, il suo ruolo, la sua portata. Giustapponendo i due capitoli, Saviano sembra quasi istituire un confronto, un parallelo tra la figura di Pier Paolo Pasolini e quella di Don Giuseppe Diana, due punti di riferimento, due fari tra cui l’intellettuale possa cercare un nuovo porto dove attraccare.

Con la stesura del documento sopra citato, Per amore del mio popolo non tacerò, Don Diana

Scrisse, firmandolo insieme a tutti i preti della foranìa di Casal di Principe, un documento inaspettato, un testo religioso, cristiano, con una traccia di disperata dignità umana, che rese quelle parole universali, capaci di superare i perimetri religiosi e di far tremare sin nella voce le sicurezze dei boss, che arrivarono a temere quelle parole più di un blitz dell’Antimafia, più del sequestro delle cave e delle betoniere, più delle intercettazioni telefoniche che tracciano un ordine di morte. Era un documento vivo con un titolo romanticamente forte: “Per amore del mio popolo non tacerò”.[6]

E, aggiunge Saviano, don Diana «non ebbe l’indolenza intellettuale di chi crede che la parola ormai abbia esaurito ogni sua risorsa che risulta capace solo di riempire gli spazi tra un timpano e l’altro»[7]. Un aspetto fondamentale, che ci aiuta a capire meglio, a gettare ulteriore luce sull’idea che Saviano ha dell’intellettuale del ventunesimo secolo, e del ruolo, tanto marginale e periferico quanto attuale e di stringente importanza, che è chiamato a svolgere nella nostra società. Con la parola di nuovo al centro, vera protagonista in tutta la sua forza:

Mentre i suoi assassini parlavano di tagliare la carne per suggellare una posizione, pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando.[8]

La parola come sentinella, bellissima immagine che riprende un passo dello scritto di don Peppino Diana, laddove ricorre a una serie di citazioni tratte dai profeti. Un passo che Saviano, trascrivendolo, sembra quasi assumere a manifesto programmatico per un certo tipo di letteratura, e di conseguenza per un certo tipo di scrittore-intellettuale impegnato, che sappia osservare i mali del mondo, raccontarli, denunciarli, e così contribuire ad arginarli:

Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno, Dio ci chiama a essere profeti.
Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio (Ezechiele 3, 16-18);
Il Profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Isaia 43);
Il Profeta invita a vivere e lui stesso vive la solidarietà nella sofferenza (Genesi 8, 18-23);
Il Profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Geremia 22, 3 – Isaia 58).
Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie e in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili.[9]

In particolare, per quanto riguarda l’invito a «parlare chiaro», Saviano ricorderà, in un’altra sede, come «Primo Levi in polemica con Giorgio Manganelli che rivendicava la possibilità di scrivere oscuro affermò che “Scrivere oscuro è immorale”»[10]. Ad ogni modo quello che don Diana auspica per «i preti nostri pastori e confratelli» Saviano sembra estenderlo a una figura che qui viene ulteriormente delineandosi: quella di uno scrittore-intellettuale-profeta, che possa collocarsi tra l’insegnamento spirituale di don Peppino Diana e l’insegnamento intellettuale di Pier Paolo Pasolini, tra scritti come Per amore del mio popolo non tacerò e opere come Lettere luterane o Petrolio. E implicitamente in questo binomio Saviano sta inserendo anche se stesso e la sua Gomorra.

Anna Politkovskaja
Anna Politkovskaja

Ovviamente, però, l’altra faccia della medaglia di questo slancio eroico cui oggi chiama un certo tipo di letteratura, oserei dire una “letteratura in Vespa”, è rappresentata dalle conseguenze estreme cui si può andare incontro facendo un uso ben preciso della parola e della sua possibilità, un uso etico, civile, quanto mai impegnato. Un uso legato a una volontà – sentita talvolta come un’imprescindibile necessità – di denuncia, di ribellione, di cambiamento e di riscatto. Chi scrive, muore è il titolo dell’introduzione di Saviano a Cecenia. Il disonore russo di Anna Politkovskaja[11], la giornalista russa ammazzata il 7 ottobre 2006 perché «la sua parola non poteva essere fermata che così. Solo in quel modo c’erano riusciti: con le pallottole». Ciò nonostante, continua Saviano, «le sue parole continuano a essere spine ficcate sotto le unghie e nelle tempie stesse del potere russo. Cecenia è un libro pericoloso»[12]. Un libro.

Ancor più pericoloso, però, anzi fatale può essere lo scrivere, e qui ci si riferisce allo scrivere nella sua potenzialità più alta, quella di dire la verità, «di scrivere dei meccanismi del potere». Poi se qualche volta ti capita per accidente di non morire ammazzato, puoi comunque ritrovarti costretto dall’oggi al domani a vivere sotto scorta, il che in una certa misura equivale comunque alla morte di una parte di te. E, come se non bastasse, oltre a questa mancata esecuzione, quante critiche, quante accuse bisogna subire, e quanti diti puntati. Anche questo credo che contribuisca a far morire un’altra piccola parte del residuo di vita che ti resta quando sei costretto (nessun intento mediatico, questo è certo) a passare il resto dei tuoi giorni in costante e concreto pericolo di vita.

Ma allora, se le conseguenze di questa potentissima arma che è la parola possono essere davvero così estreme, e non già soltanto a danno di chi è oggetto della denuncia, ma anche a danno di chi questa denuncia coraggiosamente la scrive, sottraendola al silenzio; se la parola sa essere un coltello micidiale che ferisce sia la carne di chi viene trafitto dalla sua lama, sia il palmo di chi ne impugna il manico; allora viene quasi da chiedersi: vale ancora la pena continuare a scrivere, e specialmente scrivere nel senso che siamo venuti fin qui delineando? La risposta sembra troppo scontata, tanto da far suonare la domanda come puramente retorica. Eppure si rende sempre più necessario interrogarsi, soprattutto per chi ha già deciso – o magari sta per decidere – di intraprendere questa strada, la strada della scrittura.

Vitalino Trevisan, alla domanda se la letteratura possa ancora incidere sulla realtà e avere un valore politico o civile a dispetto della sua marginalità, ha riposto laconicamente: «mi basta pensare per un momento all’inutilità della letteratura, in questo mondo umano, per raggelarmi. Ciò nonostante, vado avanti»[13]. Un’affermazione che la dice lunga anche sulla consapevole percezione che lo scrittore oggi ha di se stesso.

E come si fa ad andare avanti? Dove si trova la forza di fronte alla raggelante constatazione della marginalità e dell’«inutilità della letteratura», per giunta con tutti i rischi e le conseguenze cui può condurre? Saviano ci aiuta a rispondere a questo iperbolico dubbio, in un passaggio che credo esprima e riassuma bene l’essenza profonda del suo atto di parola:

Devi trovare qualcosa che carburi lo stomaco dell’anima per andare avanti. Cristo, Buddha, l’impegno civile, la morale, il marxismo, l’orgoglio, l’anarchismo, la lotta al crimine, la pulizia, la rabbia costante e perenne, il meridionalismo. Qualcosa. Non un gancio a cui appendersi. Piuttosto una radice sotto terra, inattaccabile. Nell’inutile battaglia in cui sei certo di ricoprire il ruolo di sconfitto, c’è qualcosa che devi preservare e sapere. Devi essere certo che si rafforzerà grazie allo spreco del tuo impegno che ha il sapore della follia e dell’ossessione. Quella radice a fittone che si incunea nel terreno ho imparato a riconoscerla negli sguardi di chi ha deciso di fissare in volto certi poteri.[14]


[1] E. Deaglio, Cocaina. Il viaggio allucinante di Roberto Saviano nel regno della polvere, «Il Venerdì di Repubblica – Le avventure di bianca neve», n° 1307 (5 aprile 2013). Consultabile anche al sito: http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_news.asp?tipoord=news&id_contenuto=3738541

[2] Deaglio, Cocaina…, cit., p. 20. Cfr. anche, a tal proposito, la dura reazione all’intervista-recensione di Deaglio da parte di Tiziano Scarpa, che ha replicato – problematizzando in particolar modo proprio il genere cui ascrivere sia ZeroZeroZero che lo stesso Gomorra – con un articolo pubblicato sulla rivista on-line «Il Primo Amore» (Scarpa, Romanzi che ci difendono…, cit.).

[3] Deaglio, Cocaina…, cit., p. 20.

[4] A. Tricomi et al., Roberto Saviano, Gomorra, «Allegoria», LVII (2008), p. 195.

[5] R. Luperini, Recensione di Romano Luperini su “Gomorra” di Roberto Saviano, consultabile al sito: http://www.aetnanet.org/modules.php?name=News&file=print&sid=9762

[6] R. Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Milano, Oscar Mondadori 20117, p. 243.

[7] Ibidem.

[8] Ivi, p. 257.

[9] Saviano, Gomorra, cit., pp. 244-45.

[10] R. Saviano, Chi scrive, muore, introduzione ad A. Politkovskaja, Cecenia. Il disonore russo, Roma, Fandango 2009, pp. 5-16: cit. p. 12.

[11] Cfr. Saviano, Chi scrive, muore, cit.

[12] Ivi, p. 6.

[13] M. Covacich et al., Ritorno alla realtà? Otto interviste a narratori italiani, «Allegoria», LVII (2008), p. 23.

[14] Saviano, Gomorra, cit., p. 253.

3 pensieri su “Roberto Saviano: un intellettuale in Vespa per raccontare Gomorra 3/3

  1. La parola come arma da usare contro le ingiustizie, nonostante le terribili conseguenze che ne possono derivare. Vale sempre la pena di scrivere e denunciare, costi quel che costi. Se più persone trovassero il coraggio di farlo, le cose un po’ alla volta cambierebbero. Bellissime le riflessioni di Saviano che hai riportato.Ti rinnovo i complimenti per questo lungo, dettagliato e interessantissimo articolo.

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    1. Le conseguenze di un libro di accusa come Gomorra possono essere estreme e fortemente destabilizzanti, come confessa lo stesso Saviano nello stralcio d’intervista che riporto all’inizio di questa terza e ultima parte dell’articolo. Ma nonostante fosse consapevole fin dall’inizio di quello cui sarebbe andato incontro, Saviano la pensa esattamente come te (e me): “Vale sempre la pena di scrivere e denunciare, costi quel che costi”. Grazie ancora una volta dei complimenti!

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